domenica 15 settembre 2013

IL CODICE PIRANESI

IL CODICE PIRANESI


Misteri di Roma. Nascosti nei sotterranei o esposti alla luce del sole e alla semioscurità lunare.
E’ un percorso difficile da interpretare, una caccia al tesoro, un cammino segnato da segni misteriosi, ma affascinante.
Una gigantesca nave pronta a salpare verso la Terra Santa, un signore potente che commissiona un’opera, un artista che nasconde nel capolavoro un insieme di simboli misteriosi per continuare una storia immortale che proviene da tanti secoli fa.
Il signore è il Gran Priore di Malta, Rezzonico, l’artista si chiama Giovan Battista Piranesi, architetto, incisore, scenografo, acquafortista e uno dei più interessanti scrittori di architettura del XVIII secolo
Siamo sull’Aventino, uno dei sette colli romani. L’Aventino ha una storia lunga e tormentata.
Secondo Tito Livio (Ab Urbe Condita libri CXLII) il colle fu scelto da Remo in opposizione a Romolo (che scelse il Palatino) per decidere il nome della nuova città e chi vi dovesse regnare, rispettando gli auspici, secondo il numero degli avvoltoi avvistati.
Strano e misterioso quel colle che somiglia stranamente a una grande nave: la nave dei Templari.
Ma è troppo presto per parlarne. Lasciamo la nave così com’è, immobile e maestosa, a picco sull'Emporio del Tevere in vista dell'Isola Tiberina.
Sull’Aventino le armi dell’esercito romano, dopo le campagne militari, erano purificate (Armilustrium).
La zona era un grande mercato e fu assegnata ai plebei, per placare le loro lamentele, con una legge del V secolo a.C. Nel II secolo a.C. Caio Gracco scelse il colle per difendere Roma. Nel periodo imperiale, col mutare della società, quel territorio divenne il quartiere preferito dall’aristocrazia, esaltata dalle abitazioni di Adriano e Traiano prima di divenire imperatori, e luogo di culto dedicato a diverse divinità: Iside e Mitra, Mercurio, Cerere, Libero e Libera, Giove Dolicheno, Bona Dea Subaxana.
Con l’affermarsi del cristianesimo cominciarono a sorgere edifici cristiani, quali Santa Sabina, SS. Bonifacio e Alessio, Santa Prisca.
Strano e misterioso quel colle, proteso come una nave pronta a salpare, a picco sul Tevere.
Nel X secolo era dominato da un monastero benedettino fortificato, nel XII secolo appartenne ai Templari, rientrando nelle numerose proprietà che avevano nella provincia romana, tra le quali l’attuale “città militare” sulla Laurentina.
L’ordine dei Templari fu costituito nella Terrasanta dopo l'indizione della prima crociata (1096) e fu attivo soprattutto alla fine del 1099, quando i territori furono riconquistati dai cristiani, per difendere i luoghi santi e i pellegrini dall’assalto dei predoni.
E’ storia. Filippo IV il Bello, re di Francia, per sanare i propri debiti e ridurre il potere della Chiesa, ordinò l'arresto dei Templari e la confisca dei loro beni. L’ordine fu eseguito venerdì 13 ottobre 1307.
Un venerdì e un 13, che da allora furono considerati funesti.
I cavalieri furono torturati per trarre infamanti accuse e gli ultimi a bruciare vivi, davanti alla Cattedrale di Notre Dame, il 18 marzo 1314, furono l'ultimo Maestro Jacques de Molay e Geoffrey de Charnay.
Strano e misterioso l’Aventino, proteso come una nave pronta a salpare, a picco sul Tevere.
Oggi sul colle sorge Villa Malta, assegnata nel 1312 ai Cavalieri Ospitalieri, predecessori dell'attuale Ordine dei Cavalieri di Malta (oggi Sovrano Militare Ordine di Malta) che vi stabilirono il loro Priorato e la loro sede storica.
Forse i Templari avevano un tesoro nascosto, forse l’Ordine non è estinto, forse i Cavalieri vivono in clandestinità.
Nel 1765 il nipote di Clemente XIII, cardinal Rezzonico, affidò a Piranesi la ristrutturazione dell'ingresso al Priorato e della chiesa di S.Maria al Priorato: fu la sua unica opera architettonica realizzata.
Fu il Rezzonico a guidare il Piranesi nel rappresentare ermeticamente simboli misteriosi presenti nella ricostruzione o l’artista espose le linee di un codice che conduceva a un percorso segreto ?
Villa Malta ha il suo centro ideale nella chiesa di S.Maria del Priorato, interna al giardino. I turisti si affollano dinanzi al portone esterno perché dal buco della serratura è visibile in lontananza la cupola di San Pietro.
Sulla facciata sono rappresentati due serpenti avvolti a spirale. Il portale di ingresso, ai lati, ha simmetricamente due candelabri, simboli religiosi che contrastano tuttavia con gli strumenti da muratore, tipici della massoneria, le  scritte FERT (Fortitudo Eius Rodum Tenuit) - risalente ai Cavalieri di Malta in difesa di Rodi – e PX (Pace). Il codice continua con due mezzelune incatenate, la torre araldica dei Rezzonico, la Croce di Malta e una serie di obelischi nel giardino. Quale significato rappresenta una sequenza concepita con simboli lontani da un contenuto omogeneo?
Scrive P.Campanella “Quale sia il messaggio che reca tale sequenza non è facile da decodificare. Ma sicuramente si percepisce che esiste e che lega tra loro una serie di individui, contesti, eventi.”
E Maria Cristina Giammetta rafforza il mistero: “I ricchissimi capitelli, ad esempio, rivelano la presenza di due figure alate, sfingi affrontate separate da una torre: si tratta forse di un faro d’oriente? Echi o richiami alle attività in terre d’oltremare dei Cavalieri dell’Ordine?”

Il colle Aventino ha la forma di nave, una nave pronta a salpare verso la Terra Santa.
La leggenda, nella Chiesa di Santa Maria al Priorato, vede l’”entrata al cassero” nella porta di ingresso, gli “spalti della tolda” nei parapetti del parco, la “prua” nella parte che scende verso il Tevere, le “funi del sartiame” nel labirinto di giardini e di cespugli e gli “alberi della nave” negli obelischi. Su di essi sono raffigurati simboli che la massoneria ha tratto dalla tradizione templare e la fila degli obelischi, posti uno sopra l’altro, sarebbe di 33 metri e 33 centimetri, corrispondenti all’altezza del tempio dei Templari.
La dea Fortuna, nella facciata della chiesa, era coniata su alcune monete dell’Ordine.
I serpenti, che pure si riferiscono al vecchio nome del colle (“mons Serpentarius”) sono 33, numero equivalente al grado che il Piranesi aveva nella massoneria.

Nessuno ha ancora decifrato il “codice Piranesi”.

DONNA OLIMPIA PAMPHILI

DONNA OLIMPIA PAMPHILI

Alcuni ragazzi fanno lo jogging lungo i sentieri immersi nei prati. E’ una bella giornata piena di sole. Mamme con le carrozzine dei bambini, uno di loro ha un palloncino colorato legato al polso e lo guarda mentre si libra in alto. C’è anche chi porta il cane a spasso, regolarmente al guinzaglio. Sembra una scena del film “Mary Poppins”.
Ma attenzione, non è stato sempre così.
Tanti anni fa quella villa era chiusa al pubblico, era privata e apparteneva a una delle Donne più potenti di Roma, una “Papessa”.
Roma conobbe altre papesse e la più conosciuta fu Giovanna, alias Papa Giovanni VIII.
Donne potenti, astute, vogliose di potere (e non solo), fino ad arrivare tanto vicino ai potenti dell’epoca da sostituirsi a loro e governare dietro le quinte. Donna Olimpia dunque.
Donna Olimpia Maidalchini nacque nel 1592 a Viterbo,  ebbe origini umili e tanta voglia di elevare il suo stato sociale. La sua “carriera” iniziò quando mise gli occhi addosso a un mercante più avanti negli anni rispetto a lei e molto ricco. Era giovane e belloccia perciò la conquista non fu difficile.
A quell’epoca la vita non era molto lunga così il mercante morì e lei, a soli venti anni, si ritrovò con molti soldi e si guardò intorno. Stavolta il colpo fu ancora più grosso.
Pamphilio Pamphili era il fratello di Giovan Battista Pamphili, un cardinale destinato a diventare papa Innocenzo X che aveva trent’anni più di lei e vide nella ragazza il sogno della sua vita, sogno invero poco felice, ma lui non lo sapeva.
Bingo ! Ora Olimpia era Donna Olimpia Pamphili, rispettata e doverosamente ossequiata da tutta Roma, ma non dai Romani.
Chi è nato a Roma, chi è “romano de Roma”, sa che i concittadini sono sì menefreghisti, ma sanno parlare chiaro e forte. Così, in mancanza di giornali, radio e tv (private) usavano carta e penna con l’aiuto di una statua, quella di Pasquino, appunto. Un capolavoro di intelligenza, una o più menti fini e colte, un biglietto esplicativo. “Olimpia nunc impia”. Eh, sì, perché quel messaggio doveva essere decifrato: “Una volta=Olim, Pia, Adesso=nunc, Empia=impia”. Tutto questo perché si sparse la voce che la nobildonna fosse diventata l’amante del papa Innocenzo X, suo cognato, che la teneva vicino a sé come consigliera e la ricopriva di costosi doni, tra i quali il palazzo Pamphili a piazza Navona che divenne la sua residenza. Arrivò addirittura a far eleggere suo figlio Camillo ai fasti di cardinale, cardinale “sui generis” perché poi si fece dispensare per sposare Olimpia Aldobrandini.
Era la donna più potente di Roma. Ormai il popolo la chiamava “Pimpaccia”. Con la sua arroganza e i suoi appoggi papalini fece spostare il mercato da piazza Navona a Campo dei fiori, per allontanare rumori e confusione sotto le sue finestre. Ogni desiderio era accolto dal Papa senza indugio e così, per ampliare la piazza, fu ordinato di demolire una serie di case, con il compiacimento degli abitanti che è facile immaginare.
Ma Donna Olimpia aveva idee grandiose. Chiamò il Borromini per dirigere i lavori e chiamò a sé anche il Bernini per la costruzione delle fontane.
A fronte di tutta quella ricchezza il popolo soffriva la fame. Era il 1645 e c’era la carestia. Donna Olimpia viveva nei fasti e le donne di Roma allora chiamate cortigiane e oggi impropriamente “escort” si rivolsero a lei per far annullare due decreti che vietavano loro di andare in carrozza e in chiesa. Oggi si direbbe “e dov’è il problema?”, infatti il papa annullò le due norme.
Ma ahimé, tutto finisce. Il papa è morente. Donna Olimpia lo veglia con amorosi sensi imputabili al desiderio di portargli via, una volta morto, tutte le monete d’oro. E così avviene. Il nuovo Papa Alessandro VII la esiliò a San Martino al Cimino, intimandole di restituire il bottino, ma lei fece orecchie da mercante.
Colpita da peste, morì dopo due anni.
Ma non finisce qui. La tradizione vuole che la notte del 7 aprile la Pimpaccia corra all’impazzata guidando una carrozza trainata da quattro cavalli neri, secondo alcuni da Piazza Navona e secondo altri da Villa Pamphili fino a Ponte Sisto precipitando nel Tevere. Altri invece hanno detto di avere visto quel gruppo correre disperatamente dal palazzo del Papa a piazza Navona, percorrendo le stesse strade quando Donna Olimpia scappava con il tesoro, dopo la morte di Innocenzo X.


IL MURO TORTO

IL MURO TORTO

All’occhio attento di chi percorre Via del Muro torto non è sfuggita la scena non infrequente di auto ferme in sosta obbligata per guasti improvvisi.
Quel muro oggi ha più di 1700 anni e un tempo i romani lo chiamavano muro “ruptus” perché quando pioveva a dirotto il muro franava. Fu eretto alla fine dell’età repubblicana per sorreggere la collina dove sorgevano ricche ville patrizie. Quel luogo era stato scelto, tra gli altri, dagli Anicii, dagli Acilii e dai Pinci, da cui proviene il nome Pincio della stessa collina. La leggenda popolare narrava che il muro fosse stato santificato addirittura da S.Pietro per difendere Roma dalle invasioni.
In tempi recenti ogni tanto da quel muro veniva giù qualcuno deciso a porre fine alla sua vita, tant’è che ancora oggi le alte sponde della murata sono protette da reti.
E’ un muro verso il quale i romani avevano (e oggi pochi hanno) un vero timore reverenziale; insomma era ritenuto un muro maledetto. Il fatto è che ai suoi piedi venivano sepolte le persone sconsacrate – e non erano poche – quali i delinquenti, i vagabondi, i suicidi, le prostitute e via dicendo. Così ancora oggi si dice che le anime di quei poveracci vaghino sotto il muro lamentandosi di una sepoltura religiosa che fu loro negata.
Non è tutto. Proprio sulla collina del Pincio, dov’erano gli Horti Luculliani e oggi sorge Villa Medici, fu uccisa Messalina. Alla bellissima Messalina quegli Horti piacevano troppo, perciò non trovò di meglio che accusare ingiustamente il proprietario, Valerio Asiatico che era stato console ben due volte, convincendo il marito Claudio - più grande di lei di trent'anni, balbuziente, zoppo e al terzo matrimonio - a far suicidare il malcapitato. Com’era usanza dell’epoca, Valerio si tagliò le vene. Legge del contrappasso o destino: Claudio in seguito fece uccidere Messalina proprio in quegli Horti.
Forse la storia non andò proprio così, ma è tramandato un amore extraconiugale dell’imperatrice (ricordata dal popolo non solo come traditrice del vincolo coniugale ma anche come prostituta notturna in incognito - sembra che una notte vinse una gara con una pari rivale) con un certo Gaio Silio che per lei aveva abbandonato la moglie.
Sperando in una copiosa ricompensa un liberto, ricordato col nome di Narciso, fece la spia all’imperatore che si trovava fuori Roma, il quale venne in tal modo a conoscenza che la voce si era diffusa in tutta la città.
Cornuto sì ma fesso no. Messalina era fuggita agli Horti Luculliani, allora Claudio incaricò un tribuno di recarsi agli Horti e di porre fine alla vita della plurifedifraga.
Muro Torto. Più tardi si sparse la voce che lo spirito di Nerone vagasse da quelle parti, ritenendo che il corpo dell’imperatore fosse stato cremato e le sue ceneri interrate nella Villa dei Domizi presso Via Margutta. Si raccontava che la Chiesa di S. Maria del Popolo, alle spalle del muro, fosse stata edificata dal Papa Pasquale II nel 1099 proprio per contrastare quella credenza.
Sugli Horti Luculliani, nel 1564, i nipoti del cardinale Giovanni Ricci di Montepulciano ordinarono una villa, ma i lavori si protrassero fino al 1576 grazie al cardinale Ferdinando de' Medici, nuovo acquirente. Pochi anni dopo una circostanza ci avvicina di nuovo alla natura misteriosa della zona: tra il 1630 e il 1633 la Villa divenne il domicilio coatto di Galileo Galilei, reo di sostenere teorie eretiche.
Arriviamo al 23 novembre1825. Alle spalle del Muro Torto, in Piazza del Popolo gremita di gente si sta svolgendo un’esecuzione. Mastro Titta cala la ghigliottina su due carbonari: Targhini e Montanari che, neanche a dirlo, saranno sepolti al Muro Torto.
Insomma, tra morti ammazzati, suicidi, nonché sepolti inconsolabili e arresti, il Muro torto non è detto che porti jella, ma forse è meglio portare l’auto da un meccanico prima di iniziarne il percorso.
Nota storica: il Muro venne inglobato nelle mura Aureliane.

LA DONAZIONE DI COSTANTINO IL GRANDE

Falsi. Mai la parola è stata in auge come oggi. Il popolo italiano si è scoperto improvvisamente un esperto linguista.
La televisione, la radio, i giornali, i discorsi personali oggi sono intrisi di questa piccola, corta parola che è espressa per qualificare una serie di argomenti uniti da un unico sottofondo: la falsità.
“Falso ideologico, falso in bilancio, falso in atto pubblico, falso materiale, falso positivo (informatica), falso documentale…”ecc.
Se fosse un film la scena iniziale potrebbe descrivere un esercito di “vù comprà” che in fila su una spiaggia offre prodotti di abbigliamento griffati a metà prezzo, oppure un Consiglio di amministrazione dove è illustrato il bilancio o l’amante che dichiara all’avvenente fanciulla di essere scapolo e il fortissimo desiderio di sposarla mentre ogni tanto guarda l’orologio per non fare tardi a casa dove l’attendono moglie e prole.
Ma il “falso” è sempre esistito.
Questo non è un romanzo e neanche un film. E’ un misto tra storia e leggenda.
Costantino si ammala di lebbra (dal greco "lepròs", scabroso). Non si è mai saputo quando la terribile malattia sia sorta, chi dice nell'XI, chi nel XII o nel XIII, ecc. Fatto sta che per evitare la contaminazione i lebbrosi dovevano farsi riconoscere suonando un campanello o una tavoletta lignea con percussione metallica.
E’ una tragedia: l’imperatore è lebbroso. Si chiamano subito i sacerdoti pagani che – nel tripudio della macabra narrazione – suggeriscono a Costantino di sgozzare bambini e riempire con il loro sangue una fontana di sangue caldo nella cui immersione l’imperatore avrebbe tratto la sua guarigione; peggio della strage degli innocenti voluta da Erode (che alcuni studiosi ritengono una leggenda).
A Costantino, pur malato, ripugna quella soluzione. Egli non vede l’ora di liberarsi da quegli ospiti; dà loro splendidi regali e li licenzia. Giunge la notte.
Si può immaginare quanto fosse agitato il sonno dell’imperatore. Ecco apparirgli gli apostoli Pietro e Paolo che sussurrano: “Va dal papa Silvestro. Ti indicherà una fonte. Ti immergerai e sarai guarito. (secondo altri la guarigione sarebbe stata condizionata dal battesimo - doppio falso: il fatto storicamente sembra improbabile). In cambio dovrai restaurare tutte le chiese cristiane nel mondo (a Roma si direbbe:”…una spesa da niente…”) e ti convertirai al vero Dio.”
Proseguiamo. Costantino richiama il papa – che si sarebbe rifugiato in una grotta del Monte Soratte, insieme a tutto il clero, per fuggire alle persecuzioni di Costantino stesso (cfr. Actus Silvestri), leggenda nella leggenda - e alla fine guarisce.
Ed eccoci arrivati al grande falso: un editto apocrifo del 30 marzo 315 con il quale l’imperatore avrebbe concesso al papa e ai suoi successori il primato sui patriarcati di Roma, Costantinopoli, Alessandria d'Egitto, Antiochia e Gerusalemme.
Non solo. L’editto avrebbe attribuito ai pontefici le insegne imperiali e la sovranità temporale su Roma, l'Italia e l'intero Impero Romano d'Occidente.
Per glorificare tutta l’operazione, infine, la donazione sarebbe stata consegnata dallo stesso Costantino al papa Sivestro dopo averla posta sopra la tomba di Pietro.
Sembra che quel grande falso fosse utilizzato la prima volta dal papa Stefano II per ingraziarsi Pipino il Breve contro i Longobardi (anno 756) e poi ogni volta che la Chiesa volle far valere i propri diritti sui territori.
Per farla breve, alla fine Leone IX nel 1053 introdusse l’editto  nel Decretum Gratiani e in altre raccolte di Decretali.
Attenzione però. L’editto era vero? Gli intellettuali avevano preso di mira l’editto…e quando si muovono gli intellettuali la cosa può farsi pericolosa…
Su questa linea critica si era già mosso il cardinale Nicola Cusano, fino a che nel 1440 lo studioso Lorenzo Valla condusse un approfondito esame dell’editto negandone la veridicità, anche se solo nel 1517 riuscì a pubblicarne i risultati (De falso credita et ementita Constatini donatione declamatio) e per di più (potremmo dire ovviamente) in ambiente protestante.
Le contestazioni muovevano dall’uso di barbarismi latini, dalla menzione di Costantinopoli (ancora non fondata) e di varie contraddizioni. Addirittura la Chiesa cattolica inserì l’opuscolo del Valla tra i cd. Libri proibiti.
Scrive Lorenzo Valla: “Per prima cosa dimostrerò che Costantino e Silvestro non erano giuridicamente tali da poter legalmente l’uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati che non erano in suo potere e l’altro da poter accettare legalmente il dono (né del resto lo avrebbe voluto).”
Lasciamo qui per ora il Valla e torniamo indietro.
I sovrani non avevano mai preso in seria considerazione la Chiesa, anzi ogni tanto c’era una persecuzione. Poi avvenne il miracolo.
Nel 315 Costantino I, imperatore d’Occidente (in Oriente regnava l’imperatore Licinio) emette il cd. Editto di Milano, proibendo le persecuzioni e dichiarando l’Impero come unità neutra nei riguardi di ogni fede.
Diciamola tutta. Secondo alcuni Costantino era un furbacchione, conscio che l’appoggio della Chiesa avrebbe evitato pericolose capriole al suo impero. Da un lato, continuò ad essere sempre il pontifex maximus del culto di stato pagano e fu battezzato solo in punto di morte (Pentecoste del 1337), ma dall’altro visse rispettando i principi cristiani nei cui riguardi fece istruire i propri figli.
Stabilì la domenica come giorno festivo, abolì la crocifissione e la lotta tra criminali come gladiatori, permise il lasciti alla Chiesa, fornì i fondi per la basilica lateranense e la Chiesa di S.Pietro - proprio sulla tomba dell’apostolo -  e sostenne la madre Elena per la costruzione della chiesa del S.Sepolcro a Gerusalemme e della Natività a Betlemme.
Storie e leggende, vere e false.
E’ il 28 ottobre 312. A Roma Costantino combatte contro Massenzio sul ponte che Massenzio aveva fatto costruire accanto al Ponte Milvio. I soldati hanno una croce sullo scudo.
Costantino ha sognato (o visto secondo altra versione) una grande croce nel cielo con la scritta “In hoc signo vinces” e fa dipingere sui propri vessilli il segno che aveva visto in cielo, corrispondente  al chi-rho (il cd. monogramma di Cristo), formato dalle prime due lettere “ΧΡ” della parola greca "CH-R-istos". Sotto queste insegne i soldati sconfiggono l'avversario.
Ma è vero? Sembra che ogni volta uno dica sì, altri dicano no.
Alcuni storici hanno insinuato che a quei tempi il culto del dio Mitra fosse molto diffuso tra i soldati di Costantino e per quel motivo essi avrebbero dipinto sullo scudo il simbolo mitriaco formato da una croce sovrapposta ad una X, con al centro un cerchio), simile al chi-rho.
Nota storica: Massenzio annega nel Tevere e la sua testa è portata in parata dai vincitori. (eh, sì, in quell’epoca non c’era molta “cavalleria”).
La Donazione: dunque il documento è stato riconosciuto falso.
Ma che fine ha fatto l’altro personaggio, quel papa Silvestro I che avrebbe ricevuto a Roma la donazione ?.
Povero Silvestro. Figlio di un certo Rufino romano e di una certa Giusta, era un papa con un carattere che definiremmo deboluccio, tant’è che alcuni lo ritenevano “l’uomo di Costantino”. Anche il battesimo di Costantino è falso poiché prove autorevoli dimostrerebbero che l’imperatore abbia ricevuto il sacramento da Eusebio, vescovo di Nicomedia.
Papa Silvestro non ricevette mai la donazione da Costantino. Quel documento, secondo Dollinger, fu costruito a Roma tra il 752 e il 777 finché fu definitivamente inserito nei falsi decreti nella metà del secolo seguente.
Tuttavia nessuno nega che Silvestro si sia avvantaggiato delle libertà che Costantino elargì alla Chiesa, ma solo quando, povero prete romano, salì sul trono papale. Il fatto è che i privilegi furono decisi da Costantino e Licinio nel 313 (quando era papa Milziade l’africano, morto nel 314).
Povero Silvestro. Costantino decide, con il titolo di vescovo, perfino i concili.
Nel 314 indice il concilio di Arles contro i donatisti. Costoro, vescovi africani intransigenti, si rifiutavano di riconoscere il vescovo di Cartagine, Ceciliano, consacrato da Felice, perché durante le persecuzione di Diocleziano aveva bruciato le Scritture. Il concilio condannò i donatisti e Costantino li perseguitò. Ma Felice risultò poi innocente e ci fu una grande confusione (termine alternativo a quello maschile popolare che meglio descrive tali situazioni), tanto che Costantino abbandona la lotta.
Gli ecclesiastici litigavano tra loro, ora che potevano alzare la voce. Così il grande Costantino indisse anche il concilio ecumenico a Nicea che condannò Ario e i suoi seguaci e confermò (gli uni contro gli altri armati, di sola voce per fortuna) la divinità di Gesù.
Dov’era il povero Silvestro nel frattempo? Al debole papa giungevano solo i resoconti, pur con solennità e rispetto. E tali prerogative dovevano essergli riconosciute anche dai contemporanei, se appena morto fu onorato come “Confessore”, onoranza attribuita dal IV secolo a chi ha sacrificato la vita a Cristo.
In effetti, anche se figura non luminosa nella storia della Chiesa, fu il primo papa ad occupare un posto di parità, seppur formale, con un imperatore e a capo di una Chiesa riconosciuta dallo Stato.
Morì il 31 dicembre 335, dopo 21 anni di pontificato.
Sepolto nel Cimitero di Priscilla sulla via Salaria, la sua salma trovò alfine riposo (si fa per dire), nel 1596, sotto l’altare maggiore della chiesa di San Silvestro in Capite.
Povero Silvestro. Il capo è conservato in un reliquiario nella sagrestia;  parte di una gamba era a S. Maria in Via Lata e resti di un braccio a S. Cecilia. Sue reliquie furono usate nel 1500 per la consacrazione dell’altare del tempietto del Bramante a S. Pietro in Montorio.
Oggi tutti lo ricordano, non fosse altro perchè la sua festa cade l’ultimo giorno dell’anno, tra i fuochi d’artificio.

LA SEDIA DEL DIAVOLO

LA SEDIA DEL DIAVOLO


Una sera come tante altre. Alle 19,30 le persone stanno per terminare i loro acquisti e tornano alle case con i loro pensieri ed  emozioni che hanno segnato la giornata.
Un bambino accanto alla madre, un cane che finalmente vede appagato il desiderio della passeggiata, alcuni lavoratori che già pensano ai programmi televisivi o alla propria compagna che li attende, due o tre sfaccendati che passeggiano con i loro problemi e auto che circolano, nella disperazione di chi le guida per trovare un posteggio, un buco dove infilare il proprio mezzo.
Sì auto, tante auto che provengono da cinque strade tutte confluenti su quella piazza.
E’ una piazza piccola e al centro sorge un rudere circondato da una cancellata.
Attenzione però. Dopo mezz’ora su quella piazza cala  una nuova atmosfera, calda, silenziosa, quasi magica. Le persone sono scomparse, ormai nella propria casa o dentro i ristoranti della zona.
E su tutto domina quel rudere che sta nel mezzo della piazza, circondato da un’inferriata.
Era la tomba di Elio Callistio, un liberto dell’imperatore Adriano.
L’immagine di Adriano è tramandata come quella di un imperatore "buono” (secondo lo storico Edward Gibbon). Governò con tolleranza, efficienza e amò le  arti, la filosofia e si appassionò alla cultura greca.
Così, in un giorno felice del secondo secolo a.C. e per ragioni che non si conoscono, Elio Callistio si trovò “uomo libero”.
Non si sa nulla di Elio, ma certamente non era povero, anzi. Forse aveva molti denari o forse era vanaglorioso o voleva dimostrare che ormai era pari agli altri cittadini romani. Sta di fatto che, su una piccola collina, volle farsi costruire una tomba monumentale, per sé e la propria famiglia, che segnasse il suo stato di uomo affermato.
Oggi la piazza si chiama proprio Piazza Elio Callistio. Ma non fu sempre così.
Il sito si trova nel quartiere Trieste, nella zona conosciuta impropriamente come quartiere Africano, il cui nome non ha nulla a che vedere con le caratteristiche della popolazione ivi residente. Quel nome discende solo dal nome delle strade che si appellano a contrade del continente africano (viale Somalia, viale Libia, via Tripoli, ecc.).
La piazza fino agli anni ‘50 si chiamava Piazza della sedia del Diavolo e ancora oggi così è chiamata dai romani.
E’ una lunga storia.
Nel sottosuolo della piazza è stato scoperto uno dei più antichi siti archeologici di Roma, risalente all’epoca preistorica, tra 251.000 e 195.000 anni fa. La scoperta si deve a Romolo Meli che nel 1882, con le sue rilevazioni stratigrafiche, ha fatto conoscere per primo l'importanza dell'insediamento pleistocenico di Sedia del Diavolo (Il Pleistocene è la prima delle due epoche in cui è suddiviso il periodo Quaternario).
La cosa destò scalpore perché nella cava furono rinvenuti i resti di grandi mammiferi, tra cui quelli di un “Elephas antiquus”, e resti umani. Tra l’altro fu dimostrato che gli abitanti di quell’epoca erano organizzati e si davano da fare per sopravvivere, con il rinvenimento di strumenti classificati come schegge e raschiatoi.
Quando Elio Callistio fece erigere la tomba tutt’intorno era aperta campagna e i greggi pascolavano tranquilli. Ma non era sempre così.
Si dice che al calare delle ombre serali l’atmosfera si colorasse di fuochi, rumori e risse.
La tomba di Callistio diventava il rifugio di viaggiatori, di pastori, di sbandati e un mercato di prostituzione, con risse annesse. Ancora oggi sembra che i segni di fuliggine sulle pareti risalgano ai fuochi accesi per attutire il freddo notturno.
Via via che sorgevano nuove abitazioni, le persone cominciarono ad aver paura di quel monumento. La fatale decadenza delle mura cominciò a far somigliare la tomba ad una grande sedia che, per le storie tramandate, fu chiamata la sedia del Diavolo. La scarsa illuminazione fece il resto. Nel medioevo si diffuse la voce secondo la quale il Diavolo stesso si fosse seduto sul rudere provocandone il crollo parziale, dando alla tomba l’attuale forma di una grande sedia con braccioli.
Nacquero così le leggende metropolitane anche su quel rudere. Si narra che nel 1800 un pecoraio di nome Giovanni rincorresse una pecora fino alla Sedia e per tale motivo diventasse un “guaritore”. Ma non finisce qui.
Giovanni guarì un donna chiamata Assunta, affetta da dissenteria. La voce si sparse, la gente cominciò a ritenere la sedia del Diavolo quasi miracolosa e altrettanto miracolosa fu la fuga da Roma di Giovanni e Assunta accusati di stregoneria.
Torniamo alla cosiddetta Sedia del Diavolo.
Era una bella costruzione fatta con mattoni di vario colore, a due piani. Al piano superiore piccole finestre - inquadrate da colonne inglobate nella parete con funzione portante e appena sporgenti (cd.paraste) - adornavano le pareti.
Nella camera inferiore in ogni parete di aprivano due arcosoli sormontati da cinque nicchie; le nicchie erano a loro volta sormontate da piccole finestre.
Ancora oggi  l’ “arcosolium”, tipica architettura utilizzata per le tombe,  può essere ammirato nelle catacombe e in molte chiese (soprattutto dal XIII secolo): si tratta di una nicchia sormontata da un arco e nella parte inferiore della stessa nicchia, sotto la lunetta dell’arco, è inserito un sarcofago.
Le pareti sorreggevano una volta a vela e questo particolare appare strano perché in quel periodo  quell'architettura era poco usata. All’esterno, poi, l’edificio era coperto da un tetto a due falde.
Ma oggi tutto è cambiato. Non c’è più la campagna romana attorno alla tomba di Callistio e la stessa tomba è chiamata Sedia. Oggi la zona è chiamata Quartiere Africano e non è neanche un quartiere perché l’unità urbanistica amministrativa è il Quartiere Trieste (Roma ha 35 Quartieri).
Nelle stesse condizioni toponomastiche si trova il “Quartiere Coppedé”, anch’esso inserito nel Quartiere Trieste.
Strano questo Quartiere Trieste. Già in epoca storica in quell’area, e precisamente sul Monte Antenne (“ante amnes”, davanti ai fiumi Tevere e Aniene) sorse un abitato sabino, dove la tradizione vuole sia stato compiuto il cd. “ratto delle sabine”. A seguito dell’urbanizzazione nel 1909, il territorio ebbe il nome di Savoia. Nei primi anni del ‘900 Gino Coppedé fu incaricato di progettare un “quartiere” (diciotto palazzi e ventisette tra palazzine e edifici) al quale l’autore dette il proprio nome.
Finalmente, nel 1946, con la nascita della Repubblica il nome della strada principale fu scelto per denominare la zona come “Quartiere Trieste”. E mentre tutto questo avveniva la tomba di Elio Callistio, alias Sedia del Diavolo, stava lì immobile mentre d’attorno tutto si muoveva e mutava.
Strano questo Quartiere Trieste.
Nel corso della seconda guerra mondiale un povero pazzo urlava di notte nelle strade del quartiere diffondendo terrore tra la popolazione. Si sparse la voce che un lupo mannaro si aggirasse tra le vie. Il poveretto poi fu identificato e rinchiuso in un manicomio.
Nello stesso periodo qualcuno avvertì la popolazione del quartiere che i tedeschi, preparandosi alla fuga, avessero minato tutte le strade. Le smentite ufficiali alla radio non ebbero seguito e quasi tutti gli abitanti si misero a fuggire. L’intera folla passò la notte a Villa Borghese, al freddo e con le poche cose che frettolosamente erano state portate via.
Ma attenzione. Il tempo corre veloce. Qualche cosa sta mutando. Qualche cosa sta rompendo l’atmosfera notturna, silente e quasi magica intorno alla Sedia.
Persone che escono dai ristoranti, ormai sazie e con un pizzico di allegria, ad eccezione di chi deve accompagnare gli ospiti a casa e deve andare alla ricerca della propria auto parcheggiata chissà dove. Persone che appena degnano di uno sguardo quel rudere che resiste imperterrito da secoli e ricorda Elio Callistio, un liberto dell’imperatore Adriano che in un dimenticato giorno del II secolo a.C. volle dimostrare a tutti il suo stato di uomo ormai affermato e incaricò uno sconosciuto architetto di erigere il suo edificio funebre.

sabato 14 settembre 2013

ALESSIO: UN MENDICANTE IN PARADISO

Uomo bizzarro Alessio, anche se nel senso buono, figlio del senatore Eufemiano e della nobildonna Agle (o Agalé).
C’è un matrimonio. La famiglia di Alessio è ricca e ricche sono le nozze. Auguri festosi e, forse, auguri di figli maschi che, data l’epoca, erano più graditi di oggi.
Invece no.
Viene la sera e lo sposo dichiara alla sposa che non se ne parla proprio, anzi si allontana dalla poverina illibata e se ne va: se ne va proprio, parte, lasciando sposa e parenti.
La vita di Alessio è mista di storia documentata e leggende.
Il fatto è che il brav’uomo aveva dentro di sé un fuoco che proveniva dal Cielo e lo connotava come un famoso santo che sarebbe nato quasi 700 anni dopo, S. Francesco da Assisi.
Da quel momento Alessio scomparve, nessuno ne seppe più nulla: si entra nella leggenda, o meglio nelle leggende.
Nella premessa, sembra che la sposa fosse una giovane virtuosa scelta dalla famiglia e già questa circostanza, al di fuori della vocazione divina, influirebbe negativamente sull’animo coniugale di uno sposo.
Per quanto riguarda le leggende che narrano la vita del Santo, si entra in un’allegra confusione.
La prima storia proviene dalla Siria e risale agli anni 450-475.
Alessio non vive in Italia, ma a Costantinopoli e, nel rispetto delle nozze mancate, arriva nella comunità cristiana di Edessa dove passa le giornate tra i mendicanti, non solo, ma regala quel poco che riceve a chi è più povero di lui. Trascorrono17 anni, Alessio è morente, chiama il sagrestano e gli confessa la sua origine. Il pover’uomo, sbigottito, corre dal vescovo, gli racconta tutto per non far seppellire Alessio nella fossa comune.
Il vescovo, di nome Tabula, si precipita al cimitero, ma il corpo di Alessio è scomparso.
Dunque Alessio era nato in Oriente, ma é fantasia, secondo una leggenda greca (sec. IX).
Alessio era proprio romano. Sì le nozze bianche sono vere e il Santo si allontanò da casa verso l’Oriente, vivendo da mendicante. La sua vita era talmente santificata che l’icona della Vergine Maria, che si trovava nella chiesa di Edessa, parlò al sagrestano e lo invitò a far entrare quel misero uomo, considerato come santo. L’episodio fece subito presa tra la gente e tutti andavano da lui, anche solo per vederlo.
Tutto questo era troppo lontano dal modo di vivere di Alessio, tant’è che fece fagotto e si imbarcò verso Tarso. Brutta traversata, mare grosso e vento forte, l’imbarcazione galleggia a stento fino a lambire le coste laziali e approdare a Ostia.
Alessio ormai è un povero straccione irriconoscibile. Tace la sua identità e chiede ospitalità nella casa paterna dove lo stesso padre lo ritiene uno straniero. Trascorre le sue giornata da povero, dormendo in un sottoscala. Le sue misere condizioni fisiche lo avvicinano a una morte prematura e decide di scrivere le sue memorie su un rotolo di carta che tiene stretto in mano anche nel momento della sua morte.
Ed ecco, appena morto, una voce divina proviene dal  Cielo e invita a cercare l’uomo di Dio.
La leggenda non dice come fu individuato il corpo di Alessio; sta di fatto che il rotolo che stringeva in mano attirò l’attenzione delle persone.
ALESSIO: UN MENDICANTE IN PARADISO

Niente da fare, quel rotolo restava stretto tra le dita della salma. A chi ricorrere se non agli imperatori ? E infatti Arcadio e Onorio riuscirono a sfilare il manoscritto e così Eufemiano ebbe conoscenza di aver ospitato il figlio senza saperlo.
Certo le leggende sono narrazioni un po’ fantastiche, non fosse altro che sappiamo storicamente che Arcadio era l’imperatore d’Oriente e Onorio era l’imperatore d’Occidente.
La terza leggenda è latina e dalla Spagna (sec.X) si diffuse a Roma. E’ una leggenda che rivede la leggenda greca e la rielabora nella comunità fondata  dall’arcivescovo metropolita di Damasco, Sergio il quale, fuggendo dall’invasione dei Saraceni, si stabilì presso la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino; qui fondò una comunità monastica mista che riuniva la regola di S.Basilio (greca) e quella di S.Benedetto (latina).
Nella leggenda latina si narra, più propriamente, che non furono gli imperatori, bensì Papa Innocenzo I a prelevare il rotolo dalla mano del Santo e scoprirne l’identità.
No, non è proprio così. Altri raccontano che Alessio fosse ancora vivo quando il Papa lo raggiunse insieme ai genitori che lo abbracciarono morente.
Conclusione: nessuno riuscirà mai a scrivere la vera storia di S.Alessio.
Al tempo di Papa Innocenzo I le sue spoglie sono furono trasferite nella chiesa di san Bonifacio e nel 1217 papa Onorio III dedicò la chiesa di S. Bonifacio anche a S. Alessio.
La testa di Alessio è venerata in una teca d’argento a mezzo busto. Sue reliquie furono usate nel 1500 per la consacrazione dell’altare del tempietto di Bramante a S. Pietro in Montorio.
La chiesa ha grande notorietà sia tra i romani- come luogo preferito per la celebrazione dei matrimoni -  che tra i turisti ed è anche conosciuta per i canti gregoriani dei monaci nel corso dei riti domenicali.

Purtroppo i rifacimenti barocchi hanno quasi completamente cancellato l’antica architettura. All’interno, nella Cappella di S.Alessio è conservata una lunga trave della scala sotto la quale dormiva il santo, posta sopra la statua in marmo di Antonio Bergondi (allievo del Bernini) che raffigura S.Alessio morente.
IL CASO BEATRICE CENCI

Il giudice: “In nome della legge…”
Il popolo: “Giustizia è fatta…”
“Ti amo”, “Ti voglio bene”, “Amore mio”
Sono tutte frasi ripetute e spesso abusate, insieme alla colorita espressione “Cornuto” (che non si riferisce proprio e soltanto  agli animali), da quando il genere umano ha smesso di balbettare (bei tempi!) e si è imposto un’organizzazione.
E’ in questa situazione che fatti acclarati come indiscutibilmente veri e inoppugnabili si rivelano poi fitti di dubbi e perplessità che incrinano i risultati e le conseguenze che ne derivano.
Ogni anno, la notte dell’11 settembre lo spettro di una giovane e bella ragazza decapitata cammina sugli spalti di Castel Sant’Angelo  portando la propria testa tra le mani. La stessa visione appare nella   Villa Borghese, a non più di 200 metri  dal luogo dove è  custodito il quadro che la ritrae.
E’ Beatrice Cenci, figlia di Francesco e di  Ersilia Santacroce e sorella di Antonia, Giacomo, Cristoforo, Rocco, Bernardo e Paolo.

IL FATTO
All’epoca della Roma papalina, la famiglia Cenci era ricchissima, poiché Francesco aveva ereditato dal padre una fortuna immensa, ma era egoista, tirchio e rissoso, guadagnandosi anche una condanna per sodomia (1598).
Francesco faceva vivere i figli in uno stato di semipovertà.
I figli Giacomo, Cristoforo  e Rocco iniziarono a contrarre debiti e a sottrarre gioielli e denaro al patrimonio del padre Francesco. Rocco e Cristoforo furono poi uccisi nel corso di risse.
La figlia Antonia riuscì a evadere dall’ambiente familiare, grazie all’appoggio del papa Clemente VIII , sposandosi e uscendo dalla casa paterna.
Francesco arrivò ad accusare i figli maschi di tramare contro la sua vita, ma l’accusa risultò infondata. Affidò i figli minori, Bernardo e Paolo, ai preti e partì per Petrella  Salto, dove possedeva un castello, con Lucrezia, sua seconda moglie da cui aveva avuto Bernardo, e la figlia Beatrice per evitare che sposandosi, avesse bisogno di una dote.
La stessa Beatrice inviò una supplica al Papa (supplica mai consegnata) dove lamentava abusi sessuali da parte del padre.
Altre violenze paterne colpirono Beatrice quando il padre scoprì che la figlia aveva espresso analoghe denunzie in alcune lettere inviate al fratello Giacomo e ad altri conoscenti.

IL DELITTO
Il 9 settembre 1598, Beatrice e Lucrezia, decidono di uccidere il loro aguzzino.
Olimpio Galletti, ex proprietario dell’immobile, e Marzio Catalano, dietro compenso, sono disposti ad uccidere Francesco, precedentemente narcotizzato, nel sonno. L’uno conficca un chiodo nell’occhio e l’altro nella testa del predestinato (secondo altri Francesco fu ucciso da martellate alla testa e bastonate sulle ginocchia), poi lo gettano da un balcone simulando così un incidente domestico dovuto a un’accidentale scivolata.

L’ERRORE
Beatrice consegna a una lavandaia due lenzuola intrise di sangue, affermando essere la conseguenza di un’emorragia verificatasi nella notte.
A seguito dei dubbi sorti dall’esame dei luoghi e delle circostanze, la lavandaia conferma a Carlo Ticone, commissario napoletano, le stesse titubanze dato che Beatrice aveva chiesto di lavare le lenzuola urgentemente, nel medesimo giorno.

LE CONSEGUENZE.
La situazione prende una piega molto pericolosa per Lucrezia e Beatrice.
Olimpio è trovato ucciso a Terni per mano di un sicario (incaricato dal Monsignor Guerra?). Ma l’arresto è emesso quando anche Marzio, scampato all’uccisione, è catturato e rende piena confessione dell’accaduto anche se, successivamente, muore sotto le torture non prima di ritrattare tutto.
La colpevolezza dell’omicidio è attribuita a Beatrice, Giacomo, Bernardo e Lucrezia.

IL GIUDIZIO
C’era poco da scherzare: a quell’epoca le torture erano di normale amministrazione, così come ci hanno illustrato i film sull’inquisizione: il tiraggio della corda annodata alle braccia dietro la schiena con sollevamento provocavano la slogatura degli arti, il sollevamento con la corda annodata ai capelli non era sopportabile, e così via.
Tutte le più alte cariche ecclesiastiche intervengono presso Clemente VIII inutilmente; anche la difesa del giureconsulto Prospero Farinacei risulta inefficace.
Giacomo é torturato per primo e confessa; anche Lucrezia, con le braccia slogate, confessa.
Beatrice è l’unica che, pur appesa per i capelli e offesa da crudeli sevizie, continua a dichiararsi innocente fino a che non resiste al sollevamento delle braccia. Solo Bernardo è risparmiato, data la sua tenera età.
Alle 4 del mattino di venerdì 10 settembre 1599 Clemente VIII decreta la morte per tutti i membri della famiglia, ad eccezione di Bernardo, condannato ad assistere al massacro, ad essere evirato e destinato alle carceri romane.
Momenti di atrocità, non c’è dubbio, rispondenti tuttavia alle regole dell’epoca: Giacomo è anche  condannato ad essere attanagliato a fuoco sul petto e sulla schiena sul carro che lo conduce al supplizio finale.
La mattina dell’11 settembre 1599 il corteo sfila tra ali di folla commossa e impietosita che già odiava Francesco Cenci e commisera la giovane Beatrice.
Lucrezia, svenuta, è adagiata su una panca e le viene mozzata la testa. Beatrice è decapitata dalla mannaia del boia. Giacomo ha la testa sfracellata da un colpo di mazza e il cadavere è squartato.

EPILOGO
Il boia Mastro Alessandro Bracca morì 13 giorni dopo le esecuzioni, tormentato dal rimorso del dolore inflitto agli imputati e, in particolare, per l’attanagliamento con ferri roventi sul corpo di Giacomo.
Il boia Mastro Peppe fu accoltellato un mese dopo, proprio vicino al luogo delle esecuzioni.
Prima ancora delle esecuzioni, fu acciuffato il sicario di Olimpio, inviato dal Monsignor Guerra. Questi, colpito da un mandato di comparizione, si finse carbonaio, tutto sporco di nero, zoppicante e malvestito per le vie di Roma, finché riuscì a lasciare la città.
Clemente VIII espropriò tutti i beni dei Cenci (compreso il quadro di Beatrice attribuito da alcuni a Guido Reni) e poi vendette tutto ai Borghese ad un prezzo simbolico, riscuotendo  ovvie e giustificate reazioni popolari, nel sospetto che le condanne e le crudeltà rispondessero a ben precisi scopi economici.

Le vicende della famiglia Cenci suscitarono l'interesse popolare e numerosi artisti, sia pittori che letterati, vi trovarono ispirazione per le loro opere: film, drammi e libri ancora destano l’attenzione del pubblico.
 
LA DIFESA
Francesco Cenci era ricchissimo e destava invidie da parte degli aristocratici romani e del papa Clemente VIII che era ansioso di espropriarlo di tutti i beni.
Grazie alle ricchezze possedute Francesco riteneva di poter condurre una vita autonoma e separata dai conflitti e inciuci tipici dell’epoca in cui viveva, protetto dall’appartenenza al Senato Romano e dalle nobili origini che gli garantivano forti relazioni clientelari, consentendogli atteggiamenti aggressivi contro la potente nobiltà papalina.
Orgoglio o errore di valutazione? Fu oggetto di accuse orrende e non fu riconosciuta la sua rettitudine; a causa di condanne ingiuste fu imprigionato come omosessuale e costretto a pagare somme ingenti che impoverivano la famiglia e lo costringevano a risparmi anche nei confronti dei figli, che invece anelavano a carpirgli le ricchezze.
Condusse moglie e figlia a Petrella Salto per sottrarle agli intrighi di corte.
Nel 1594 gli fu sequestrato addirittura circa un quinto del patrimonio, corrispondente all’incredibile somma di 100.000 scudi, a seguito di una diffamante accusa di sodomia.
Fu ridotto in povertà, malato di rogna e fu ospitato a Roma presso l’Ospedale degli Incurabili.
Queste furono le cause del peggioramento del suo carattere, una volta tornato a Petrella, e dell’odio della moglie e della figlia Beatrice, ma tutte le condanne derivarono da confessioni estorte “per tormenta”.
Dalle indagini archivistiche di Antonio Bertoletti del 1879 Beatrice risultò avere 22 anni e non 16 (com’era ritenuto); la giovane aveva come amante segreto Marzio Catalano, da cui avrebbe avuto un figlio.
Clemente VIII fu indotto al rigore della condanna anche perché proprio in quel periodo si erano verificati due casi di matricidio e di fratricidio. Dalla documentazione risulterebbe che egli abbia lasciato una cospicua somma di denaro a favore del figlio illegittimo, affidato a Catarina de Santis.
"I cadaveri furono lasciati sino alle 23 hore in pubblico spettacolo, cioè le donne in un cataletto per una con torci accesi intorno, et Giacomo attaccato in pezzi"

Ogni anno l’11 settembre nella chiesa di San Tommaso ai Cenci la Confraternita dei Vetturini fa celebrare una messa in ricordo del supplizio di Beatrice e Giacomo Cenci.

LA PAROLA ALLA GIURIAstorieeleggendediroma-adri.blogspot.com